15.3.18

Air-gun nel Mare Adriatico, una sentenza non può essere un alibi per le strategie energetiche di un Paese

 
Le tre sentenze del Consiglio di Stato che, sbloccando le valutazioni di impatto ambientale approvate dal Ministero dell’Ambiente, autorizzano la prospezione con l’air-gun per la ricerca degli idrocarburi nelle acque del Mare Adriatico non risolvono, secondo il WWF, due questioni di fondo che il nuovo Parlamento e il nuovo Governo dovranno affrontare:
  1. se il nostro Paese intenda ancora oggi, dopo l’Accordo di Parigi del 2015, favorire le fonti fossili ritardando le scelte a favore delle fonti rinnovabili e ponendo a rischio le nostre risorse naturali;
  2. se il nostro Paese voglia sottovalutare gli impatti ambientali di queste attività, continuando ad alimentare un sistema di agevolazioni e sussidi che fa dell’Italia un “paradiso fiscale” per le aziende petrolifere.
L’air-gun è la sorgente d’energia oggi più utilizzata per i rilievi sismici in mare nella fase di ricerca degli idrocarburi ed è da considerarsi tra le fonti di rumore a elevata potenza che possono provocare gravi danni fisici alle strutture dell’apparato uditivo e provocare effetti temporanei, permanenti o addirittura letali, in alcune specie sensibili a tali emissioni, quali indiscutibilmente sono i Cetacei, come è stato dimostrato sin dal 2012 da uno studio dell’ISPRA.
Anche se gli interventi di ricerca con l’air-gun dovranno avere ora autorizzazioni puntuali, per cui è necessario continuare a cercare di impedire questo scempio all’ecosistema marino, è del tutto evidente che il problema della ricerca e dell’estrazione di idrocarburi a mare è una vera e propria emergenza. Oggi il 25% della piattaforma continentale italiana è interessata da attività di sfruttamento degli idrocarburi offshore che mettono a rischio aree di pregio dal punto di vista naturalistico a fronte di un ritorno economico dalle attività di estrazione degli idrocarburi del tutto marginale: il greggio disponibile è di scarsa qualità e le riserve di petrolio presenti nei fondali marini sono molto limitate tanto che potrebbero soddisfare il fabbisogno nazionale solo per 7 settimane. In realtà le aziende petrolifere continuano a investire perché godono di un sistema di esenzioni che non fa pagare royalty sulle prime 50mila tonnellate di petrolio estratte e sui primi 80 milioni di smc di gas estratti a mare, oltre ad avere un prezzo delle concessioni risibile a cui si aggiungono tutta una serie di ulteriori sussidi.
Le servitù petrolifere, senza che esista nemmeno un Piano nazionale sulle aree dove svolgere attività di ricerca, prospezione e coltivazione di idrocarburi (cancellato dal Governo Renzi), mettono a rischio, nel solo nel versante Adriatico, il patrimonio naturale costituito da 112 aree protette dalle norme italiane e comunitarie: 6 aree marine protette, un parco nazionale, 10 parchi regionali, 31 riserve naturali statali e regionali e 65 siti della Rete Natura 2000 distribuiti nella fascia costiera e nelle acque territoriali italiane.
Le attività di ricerca e coltivazione degli idrocarburi a regime e durante le fasi di ricerca hanno un elevato impatto sull’ecosistema marino. Ad esempio, nel rilevare l’impatto delle attività di estrazione degli idrocarburi non vengono valutate adeguatamente le criticità geologiche: la subsidenza, la produzione di ampie depressioni del fondale marino che richiamano al largo i sedimenti favorendo l’erosione delle spiagge e lo scalzamento delle coste alte, la sismicità delle aree dove vengono localizzate le piattaforme che vengono realizzate con strutture che raramente possono resistere ad uno scuotimento sismico.
Nella fase operativa di estrazione degli idrocarburi vengono poi usati fanghi perforanti a base di acqua che contengono sostanze (argille bentoniche, solfato di bario, carbonato di calcio, ematite) alcune delle quali sono tossiche per la vita marina specialmente quando mescolate con scarti gassosi e fluidi durante la perforazione dei pozzi, oppure a seguito di reazioni chimiche che normalmente si sviluppano nella fase di perforazione. Le acque di produzione (PFW), immesse nel pozzo per aumentare la pressione del giacimento e favorire la fuoriuscita di petrolio, contengono alcuni contaminanti, come i metalli pesanti e i microinquinanti organici, che inquinano i fondali e provocano danni agli organismi marini.